Giornale di Brescia, 25 settembre 2010

Emanuele Beschi illustra i 16 concerti e la «filosofia» che li rende attraenti

Da un po’ di tempo si può parlare di musica antica senza entrare nell’inutile groviglio polemico che per trent’anni ha accompagnato quella che sembrava una delle tante mode passeggere del consumo musicale occidentale. Anzi, l’Early Music si è rivelata una delle più importanti occasioni di rigenerazione della musica classica, nel suo periodo di maggior declino. Il pubblico innamorato di Palestrina, Corelli e Händel affolla i concerti, compra i cd, legge riviste specializzate, discute di prassi esecutiva dividendosi sulle qualità degli interpreti preferiti come un tempo succedeva solo per l’opera lirica. Indiscutibili segni di vitalità.

Ne è consapevole Emanuele Beschi, che da otto anni inventa un cartellone dedicato alla musica barocca, cercando di accontentare un po’ tutti: gli amanti di Bach e i vivaldiani doc, quelli che non si spingono oltre il virginale e chi nel canto accetta perfino un po’ di vibrato. «Come un cacciatore, ogni volta ho cercato di tendere la rete nel punto giusto, per catturare i migliori artisti in circolazione. Con un pizzico di orgoglio posso dire d’esservi riuscito».

Savall, la Reverdie, l’Ensemble Aurora, il gruppo Aglàia e altri ancora: c&#8217un filo rosso che collega tutti questi nomi?

Il legame sottile e tenace che unisce i 16 concerti è la frase di Bernardo di Chartres: siamo nani sulle spalle di giganti. Cioè, vediamo più lontano dei nostri predecessori, ma possiamo farlo solo perché loro ci sollevano. Ogni artista lo racconterà alla sua maniera: con autori, stili, forza di persuasione, diversi fra loro. Il compositore studia i maestri del passato, li ricopia, li imita fedelmente, fino a quando scopre la sua cifra individuale. Solo nel confronto con la grandezza puoi diventare capace di creatività. Poco alla volta riconosci la tua personalità. È una preziosa indicazione di metodo che vale anche per la vita: senza maestri ci si perde, si segue il vento instabile e insaziabile delle mode; e poi il tempo dell’apprendimento non finisce mai.

Non è facile definire la musica antica. Quali sono i suoi limiti cronologici? Sono stati creati finti sottoperiodi per cui avremmo un certo tipo di musica fino a Monteverdi, poi un’altra categoria (dal Seicento fino al classicismo viennese) e altro ancora. Pure la divisione in «medievale» e «rinascimentale» presenta confini labili e ambigui. Mozart, Beethoven, perfino Brahms, sono eseguiti con strumenti e tecniche esecutive «storicamente informate». Si cerca di ricreare il sound dell’antichità classica mediterranea. Debussy sta per diventare «filologico». Allora tutta la musica occidentale è antica? E come la mettiamo con la «contemporanea» che, altro paradosso, è musica del secolo scorso?

Problematiche assolutamente spinose, sono d’accordo. «Antica» è un modo di pensare e di vivere la musica del passato con il desiderio di volerla rieseguire o riascoltare il più vicino possibile alle modalità che ne accompagnarono la nascita. «Antica» è l’energia vitale che scaturisce da questa filosofia. Tutti ne hanno tratto alimento e ispirazione.

Quali linee fondanti vi hanno guidato in questi anni?

Vorrei ricordare il gusto della ricerca e della riscoperta, in special modo di autori bresciani.

È opinione diffusa tra gli addetti ai lavori che gli interpreti italiani possiedano un quid in più di vivezza, estro, fantasia. Nel cartellone delle «Settimane Barocche 2010» i musicisti italiani sono molti. È un caso oppure si tratta di una scelta consapevole?

Oggi l’Italia si trova in prima fila nell’eseguire questo repertorio con criteri di consapevolezza estetica. Abbiamo scoperto e valorizzato la musica pre-Settecento relativamente tardi, dopo altre nazioni europee. Però abbiamo recuperato lo svantaggio e, in un certo senso, oggi siamo all’avanguardia. Ma lascio che siano gli ascoltatori a scoprirlo. Hanno sedici occasioni per farsene un’idea.

Enrico Raggi